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Racconto "Il sogno"

Avevo fatto tardi la sera precedente e ora facevo fatica a svegliarmi. Dovevo alzarmi, la sveglia aveva già suonato e a malapena ero riuscito ad interromperla ancora nel dormiveglia, meccanicamente.
Fui assalito dal pensiero di tutte le cose che avrei dovuto fare nella giornata e la cosa mi dette una scarica che mi consentì di mettere le gambe fuori dal letto. Mi girai verso l'amore della mia vita che ancora stava dormendo e la baciai delicatamente sul collo per non interrompere il suo sonno.
Mi soffermai a guardarla dormire, completamente rannicchiata su di un fianco. Doveva essere stremata. Ebbi per un attimo la sensazione che mi passassero davanti tutti gli anni trascorsi insieme, come se riuscissi a percepire, in una frazione di secondo, tutti i sentimenti reciprocamente provati nel tempo.
Preparai il caffè e quando fu pronto, al diffondersi del suo aroma inconfondibile, gettai una voce a Caterina: “Tesoro è pronta la colazione”. Non mi rispose e non si alzò; pensai fosse particolarmente stanca e non me la sentii di insistere.
Bevvi il caffè dopo averlo macchiato con un po' di latte e mangiai un biscotto ascoltando le prime notizie del giorno in tv a volume sommesso. Quindi cercai di fare meno rumore possibile nel vestirmi. Rivolsi un ultimo sguardo verso Caterina, poi uscii dall'appartamento e richiusi dietro di me, molto lentamente, la porta.
Era una bellissima giornata e, per essere ottobre, la temperatura era molto più mite del solito. Aprendo il cancello rivolsi lo sguardo alla mia auto per vedere se ancora c'era. Ero ancora scottato da un tentativo di furto avvenuto qualche mese prima che, oltre a fare parecchi danni, mi aveva lasciato un senso di insicurezza che ogni mattina tendevo a rivivere.
C'era il mercato del lunedì, che si svolgeva nella nostra zona e rendeva caotica ogni strada intorno al quartiere. Le persone dentro le loro auto cercavano di raggiungere un posto quanto più vicino possibile alle bancarelle, girando per minuti e minuti, sprecando tempo e intasando ulteriormente le strade già piene del normale traffico giornaliero. “Siamo tutti completamente matti” - pensai tra me e me - “Giriamo mezz'ora per trovare un posto in doppia o tripla fila accanto al banco di fiducia, quando a trecento metri di distanza c'è una comoda piazza. Magari poi ci andiamo a iscrivere in palestra per fare movimento!”.
Misi in moto e mi avviai nel traffico iniziando a pianificare che cosa avrei fatto appena arrivato. Una volta parcheggiata l'auto, intravidi il vicino di ufficio, un signore alto e distinto che stava prendendo l'ascensore. Detti una voce: “Un attimo signor Guidi, grazie” e cercai di accelerare il passo per entrare anch'io, ma la porta dell'ascensore mi si richiuse davanti. Osservai, nell'ultima fessura tra le porte in chiusura, la faccia del signor Guidi che mi guardava assorto, senza nessun accenno di scusa. “Generalmente è molto gentile” - pensai, anzi è lui stesso che ogni volta entrando in ascensore non manca mai di dare uno sguardo se qualche altro condomino possa seguirlo a breve distanza. Richiamai l'ascensore premendo il pulsante della salita, ma non arrivava anzi neppure si accendeva la spia di occupato. Imprecai e salii a piedi.
Il centro direzionale, dove è ubicato il mio ufficio, è uno di quei grandi complessi con otto scale di accesso distribuite tra i suoi quattro lunghissimi lati. Ognuna di queste scale serve due piani con tre/quattro società in ogni piano, in pratica quasi un labirinto per una persona che vi accede per la prima volta.
Percorsi il corridoio per raggiungere la porta d'ingresso del mio ufficio e la trovai socchiusa. Entrai e la chiusi con attenzione. Misi la mia giacca nel guardaroba e girandomi accendendo la luce dell'ingresso vidi nuovamente la porta socchiusa. Rimasi perplesso, ero sicuro di averla chiusa. La chiusi di nuovo e mi avviai verso la mia stanza. Camminando nel corridoio interno vidi filtrare la luce dall'ufficio del mio socio, evidentemente si era alzato di buonora. “Ciao Valter, sono io” gli dissi a voce alta per farmi sentire posizionando la borsa sulla poltrona davanti alla mia scrivania. Non ebbi alcuna risposta.
Trovai la mia scrivania eccezionalmente ordinata anzi, quasi priva di tutta la marea di documentazione che normalmente è presente ogni giorno. Non riuscivo ad immaginare chi avesse potuto mettere mano a tutte le mie pratiche e ai miei appunti.
Guardai la mia agenda e rimasi allibito vedendo che le ultime annotazioni risalivano ai primi giorni di agosto. Erano svaniti quasi due mesi di appuntamenti e attività lavorative. Chiusi l'agenda e, rigirandola tra le mie mani, guardai l'anno sul frontespizio pensando che qualcuno l'avesse sostituita con una vecchia agenda ma lessi 2014, era quella giusta. Ero frastornato, non riuscivo a capire cosa fosse successo, chiamai il mio socio e non rispose.
Mi avvicinai alla sua stanza ed era vuota, ma entrando l'avevo visto o meglio avevo visto la luce accesa! Invece era tutto spento, anche le luci che avevo acceso entrando, comprese quelle della mia stanza, erano spente, ora la porta d'ingresso era chiusa. Iniziai a provare un senso di angoscia, non mi rendevo conto che cosa stesse succedendo, era tutto così reale ma nello stesso tempo mi sembrava di vivere le incongruenze di un sogno.
In quel momento squillò il cellulare, era la segnalazione di una scadenza. Aprii la scadenza e lessi: “Compleanno Babbo”.
Ebbi un nodo alla gola leggendo quell'avviso che non avevo avuto il coraggio di togliere dopo la sua morte. Nonostante fosse già passato più di un anno, ogni volta che pensavo a lui, non potevo fare a meno di sentire un senso di colpa nel non avergli mai detto, apertamente, che gli volevo bene. I nostri caratteri, schivi e gelosi dei nostri sentimenti, non ci avevano mai portato a smancerie, sebbene sapevamo entrambi quanto l'uno valesse per l'altro.
Assorto in questi tristi pensieri non mi accorsi né dell'incongruenza temporale tra l'avviso inserito per il giorno 29 di luglio ed il fatto che era il giorno 2 di ottobre, né del cambio di luce che stava avvenendo intorno a me e mi ritrovai a Pisa nel salotto della casa da matricola universitaria di mio figlio Lorenzo. Davanti a me Laura, mia figlia, che stava parlando con lui.
A questo punto non ebbi più dubbi stavo sognando, un sogno ben definito ma con le sue tipiche incongruenze: i voli pindarici tra una scena e l'altra, le interruzioni delle azioni ma, comunque, un sogno intenso sia nei dettagli che nelle sensazioni.
Pur provando un certo senso di angoscia, volevo vivere fino in fondo questa esperienza come quando, ancora nel dormiveglia dopo un sogno ricco di emozioni, ne ripercorri mentalmente la trama per non dimenticarlo.
Mi avvicinai a loro ma sembrarono non accorgersi di me.
Chiamai: “Laura!” ma non si girò, continuò a parlare con il suo amato fratellino come sempre lei stessa lo definiva quando ci parlava di lui. Anche Lorenzo, da parte sua, sembrava serio e attento a ciò che diceva la sorella, d'altro canto tra loro c'era un fortissimo affetto che i tredici anni di differenza avevano ancor più accentuato.
Per un momento non pensai al sogno, al fatto che non potevo interagire con loro, ma fui invaso da un profondo senso di serenità, di pace, di soddisfazione. Stavo provando una grandissima felicità nel guardarli insieme come fossero il più grande frutto dell'amore con Caterina e del continuo sforzo quotidiano nell'essere un buon padre pur con tutti i limiti del mio carattere. Ancora una volta pensai alla grande fortuna di essere stato indegnamente oggetto di un dono divino.
Questo sogno stava coinvolgendo ogni mio senso e oramai desideravo con tutto me stesso protrarlo più a lungo possibile. Guardai ancora una volta Laura e Lorenzo cercando di avvicinarmi a loro per capire cosa si dicessero, ma non riuscii a comprendere le loro parole.
Ad un certo momento si abbracciarono e vidi che piangevano entrambi. Provai una fitta sul lato sinistro del mio torace e un dolore fortissimo. Nuovamente la luce cambiò e mi ritrovai in un prato.
Vidi, ai bordi di questo prato sotto un albero, mio padre che stava parlando con un signore che io non conoscevo. Dopo la sua morte, nonostante abitassi a cinquecento chilometri da lui oramai da quando mi ero sposato, avevo sentito tantissimo la sua mancanza e avevo iniziato a sognarlo svariate volte. Noi due siamo sempre stati legati da un sottilissimo filo invisibile che ci accomunava, nel fisico, nel carattere, nella sensibilità, negli aspetti positivi e in quelli negativi. Anche se non avevo mai avuto il coraggio di dirglielo, ero profondamente grato per come mi aveva cresciuto.
Questa volta mio padre e lo sconosciuto si accorsero della mia presenza e rivolsero lo sguardo verso di me. Vidi mio padre venirmi incontro. Era giovane, in piena forma e mi guardava radioso. Quando arrivò vicino mi porse la mano in silenzio.
In quel preciso istante mi venne in mente tutte le volte che addormentandomi pregavo il Buon Dio che, quando fosse giunto il mio momento, mandasse mio padre a prendermi per mano così come per mano mi aveva già accompagnato durante buona parte della mia vita.
E in quel preciso istante mi resi conto che non era un sogno e che tutti i tasselli di questo incredibile puzzle avevano preso il loro posto.
Mi rivolsi a mio padre e per la prima volta gli dissi che era stato un padre come pochi e che mi era mancato tantissimo.
Lui sorrise, prese la mia mano e ci incamminammo insieme.
(Racconto partecipante al Memorial Vallavanti Rondoni Edizione 2015 a cui e' stata attribuita la menzione d'onore dalla giuria)